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Aziende e Celebrità come testimonial: conviene ancora?

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VIP come testimonial per i grandi BRAND, un matrimonio in crisi, si direbbe. La finale della 46esima edizione del Superbowl, vinta domenica sera dai New York Giants contro i New Egland Patriots, è già un caso di studio per chi si occupa di comunicazione e di marketing. Negli USA è forse l’evento più atteso dell’anno, con numeri che farebbero impazzire qualsiasi professionista del settore: audience TV record, con 111,3 milioni di telespettatori e un giro d’affari in spot pubblicitari quantificabile tra i 250 e i 3.000 milioni di dollari americani e con tariffe da 3,5 a 4 milioni di dollari per uno spot da 30 secondi.

Un evento che solamente la grande macchina da soldi made in USA può mettere in piedi e che rappresenta un incredibile test per qualsiasi strategia di mercato. Interessante, al riguardo, l’analisi fatta ieri da Sam Laird su Mashable in “Brand or Celeb? Social Media Shows Who Super Bowl Ads Helped Most“, in cui si pone un quesito su cui rifletto da tempo, soprattutto in funzione del marketing e della comunicazione sui social media, che rappresenta ormai la vera cassa di risonanza di qualsiasi evento e strategia sui mainstream media. Nel grande gioco della pubblicità, ci guadagnano di più le aziende o i loro testimonial? E’ davvero ancora un buon affare per i brand ingaggiare star televisive e cinematografiche o grandi nomi dello sport per promuovere i propri prodotti? I VIP convertono?

L’analisi fatta da Mashable sembrerebbe dire in modo molto chiaro un netto no. Analizzando i dati raccolti sui social media, infatti, appare chiaro che è David Beckham, il vero dominatore socialmediatico della serata, dall’alto di oltre 85,000 tweet che lo citano e lo celebrano nella sua poco vestita fisicità per il brand svedese H&M. Ma ne esce tutto sommato bene anche l’azienda; benché il suo testimonial abbia registrato circa il quadruplo delle loro conversazioni sui social, H&M ha comunque guadagnato le primissime posizioni tra i marchi più citati durante il week-end sportivo. A carissimo prezzo, ovviamente. Per la cronaca il bel David sembra aver stracciato sui social anche Madonna, che nell’intervallo ha fatto una performance  mixando vecchie e nuove canzoni.

Non altrettanto efficace è risultato però l’apporto di Adriana Lima per Kia e Teleflora, schiacciati dalla bellezza della top model e altrettanto è accaduto a Dannon Yogurt con John Stamos, un attore piuttosto popolare negli USA, ma a quanto pare non per il suo consumo di yogurt. I tre brand non hanno visto schizzare in alto la loro popolarità sui social, mentre Adriana e John sono stati al centro di molte conversazioni, con interessanti percentuali di crescita in termini di personal branding e di gradimento. Morale della favola, i numeri veri li hanno fatti i testimonial, ben lieti di metterci la faccia e di guadagnarsi una barcata di soldi e qualche ghiottissima fetta di (ulteriore) celebrità.

L’analisi di Mashable si conclude con la constatazione che i tre brand più “chiacchierati” del week-end del Superbowl, Doritos, Coca-Cola, e Budweiser, sono anche gli unici a non aver scelto dei VIP come testimonial, dato che unito ai precedenti dovrebbe davvero far aprire gli occhi alle aziende, una volta per tutte. Ripeto, l’ho già scritto diverse volte: il matrimonio (di puro e semplice interesse) tra celebrità e aziende è ormai ben oltre la frutta. I VIP sono ormai essi stessi delle aziende, con giri d’affari e bilanci che fanno impallidire molte delle PMI che, incomprensibilmente, farebbero carte false per aggiudicarseli come testimonial. Perché non sfruttare, invece, il naturale volano dei social media per amplificare idee, piuttosto che celebrità? Un ottimo esempio è offerto da Volk­swa­gen, con l’ottimo “The Dog Stri­kes Back“.

Oggi, se proprio dobbiamo rivolgerci all’universo celebrities,  funziona al più la “sponsorizzazione tecnica”, la fornitura di abiti e gioielli da sfoggiare nel corso di serate esclusive o in luoghi di vacanza da sogno, strategia che ha fatto la fortuna di marchi come Dolce & Gabbana, tanto per citarne uno, e di aziende che hanno saputo piazzare i propri prodotti nei luoghi giusti e nelle occasioni migliori, oltre che in abbinamento ai testimonial migliori. Il VIP non va imposto, ma “utilizzato” come vettore di un messaggio quasi subliminale, sfruttando l’inesauribile vena emulativa del genere umano. Le altre strategie sono fallimentari, tanto più se si investono cifre importanti per acquistare gli spazi su cui sfoggiare la celebrità di turno, che tanto sarebbe per sua stessa natura paparazzata e buzzata in tutti i modi, anche se non fosse presente sullo schermo all’interno di uno spot.

Ma quali sono le aziende che hanno investito nella finale del Superbowl? Quanto alle categorie merceologiche, l’industria automobilistica e il suo indotto hanno fatto la parte del leone, con una dozzina di  marche di vetture (tra cui la nostra FIAT, Chry­sler, Volk­swa­gen, Audi, Honda, Kia e Toyota), una di pneumatici e un sito internet di vendita auto. La Chrysler, come era già avvenuto lo scorso anno, è stata l’unica azienda a comprare uno spot di due minuti (qualcosa di molto vicino ai 10 milioni di dollari di investimento). Per guar­dare tutti gli spot e addirittura votarli c’è una bella pagina di Usa today, molto utile per farsi un’idea dei big spender americani, qualora vi venisse l’idea di proporre qualche strategia con budget più basso e migliori risultati, magari sui social media, che i VIP li vedono quasi esclusivamente in ottica gossip.

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