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Il fattore umano nel marketing è davvero una novità?

Tempo di lettura 6 minuti

E’ sempre più ricorrente l’invocazione ad “essere umani”, anche nel marketing. Ma si tratta davvero di un concetto nuovo? Inoltre, “essere umani” crea realmente un valore (emotivo, esperienziale, sociale e finanziario)?

Domanda da cento milioni di dollari che esplora in un (lungo) post su BeyondPhilosophy Michael Lowenstein, una delle menti più sottili  nello studio del comportamento dei consumatori. La lettura dell’articolo non è semplicissima, ma ritengo valga la pena fare un po’ di fatica per seguire il suo ragionamento, che ci propone insight utili anche nell’operatività quotidiana. Ve ne propongo un’ampia sintesi.

La creazione di esperienze di marca e l’advocacy behavior 

Più che uno slogan, “essere umano”, soprattutto nella brand building e nella capacità di sfruttare le relazioni con i clienti, è diventato un concetto che fa da rumore di fondo un po’ a tutte le attività di marketing. Il fattore “umano”, nel marketing, nella comunicazione, nel posizionamento, e la creazione di esperienze attraverso la vendita, il servizio, e le operazioni pervade oggi i titoli di articoli, i blog, i white paper e anche i libri.

Ma in realtà c’è poco di veramente nuovo o pionieristico in questa idea. Per capire i clienti, l’impresa efficace ha bisogno di pensare in termini umani, emozionali.

Per rendere il marchio o la società più attraente, e avere più impatto sul processo decisionale del cliente, ci deve essere l’accento sulla creazione di maggior valore percepito e di maggiore personalizzazione. Molto di questo è, culturalmente, operativamente, e dal punto di vista della comunicazione, ciò che per anni è stato descritto come “inside-out advocacy”.

La maggior parte dei marchi e delle aziende passa da approcci di ordine macro, passivi, e transazionali alle relazioni con i clienti. Queste possono includere velocità del servizio clienti, prezzi promozionali una tantum, espedienti di merchandising, offerte di nuovi prodotti, e così via.

Nella maggior parte dei casi, i clienti non vedono proattività, né “personalità” del brand o differenziazione tra marchio e marchio, e la loro esperienza del marchio è unidimensionale, facilmente sostituibile. Inoltre, il cliente non investe nulla di personale nello scegliere (e nel rimanere con) una marca o un fornitore rispetto ad un altro.

Peggio ancora, a volte sembra che “la cultura d’impresa” così come la conosciamo abbia perso la sua strada anche rispetto agli stakeholder, in particolare per quanto riguarda l’essere orientati allo scopo e avere rapporti basati sulla fiducia.

Nel loro recente libro, Conscious Capitalism, gli autori Raj Saisodi e John Mackey (Co-CEO di Whole Foods Market) hanno osservato:

… molte aziende sembrano esistere principalmente per massimizzare la remunerazione dei loro dirigenti e secondariamente per creare valore per gli azionisti, anziché per ottimizzare la creazione di valore sostenibile per tutti gli stakeholder.

Un’occasione fondamentale per le aziende di diventare più forti, più affidabili e più vitali per i clienti è la creazione di esperienze di marca. Oltre la semplice vendita di un prodotto o di un servizio, questi “marchi esperienziali” si connettono ai propri clienti. Capiscono che la realizzazione di elementi di valore tangibili e funzionali  sono solo l’equivalente della puntata di apertura nel poker, e che in realtà essere collegati con i clienti, e avere con loro un rapporto basato su emozioni, è la chiave per far leva sulla fedeltà e per trovare in loro degli alleati (è il concetto questo di advocacy behavior) [1].

Queste aziende sono anche sempre molto disciplinate e proattive. Ogni aspetto dell’offerta di una società – il servizio clienti, la pubblicità, il packaging, la fatturazione, i prodotti, ecc. – è pensato in termini di coerenza. Commercializzano, e creano esperienze, all’interno di una visione di marca.

IKEA potrebbe farla franca con la vendita di mobili super costosi, ma non lo fa. Starbucks potrebbe guadagnare di più vendendo la Pepsi, ma non lo fa. Ogni funzione che offre l’esperienza è “a circuito chiuso” e a 360 gradi, mantenendo accuratamente l’equilibrio tra le aspettative dei clienti e ciò che è effettivamente realizzato.

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Nuovi modelli di relazione tra imprese e clienti

Nel suo libro del 2010, “Marketing 3.0: From Products to Customers to the Human Spirit”, il celebre studioso di marketing Philip Kotler ha riconosciuto che il nuovo modello per le organizzazioni è quello di trattare i clienti non come semplici consumatori, ma come quei complessi, multidimensionali esseri che sono gli umani.

I clienti, a loro volta, hanno preso a scegliere le aziende e i prodotti che soddisfano i loro bisogni più profondi di partecipazione, di creatività, di comunità e di idealismo.

Questo cambiamento epocale è il motivo per cui, secondo Kotler, il futuro del marketing sarà nella creazione di prodotti, servizi, e di culture aziendali che ispirano, includono e riflettono i valori dei clienti target.

Significa anche che ogni transazione e interazione in un touchpoint (e il rapporto a lungo termine), necessari per portare avanti il carattere univoco dell’organizzazione, devono essere un riflesso del valore percepito rappresentato al cliente.

Kotler ha raccolto un tema che è stato articolato nel libro del 2007, “Firms of Endearment” (“imprese sensibili”), degli autori Jagdish Sheth, Raj Sisodia, e Daniel B. Wolfe, i quali hanno etichettato tali organizzazioni come società “umanistiche”, cioè quelle che cercano di massimizzare il loro valore rispetto a ciascun gruppo di stakeholder, non solo per gli azionisti (shareholder). Come hanno dichiarato, proprio all’inizio (capitolo 1, pagina 4):

Ciò che noi chiamiamo una società umanistica è gestita in modo tale che i suoi stakeholder – clienti, dipendenti, fornitori, partner commerciali, società, e molti investitori – sviluppino un legame emotivo con essa, un’affettuosa considerazione non dissimile da ciò che molte persone provano emotivamente per le loro squadre preferite. Le aziende umanistiche – o imprese sensibili (firms of endearment: FoEs) – cercano di massimizzare il loro valore per la società nel suo insieme, non solo per i loro azionisti. Sono creatrici al massimo di valore: creano valore emotivo, valore esperienziale, valore sociale, e, naturalmente, valore finanziario. Le persone che interagiscono con tali società si sentono sicure, al sicuro, e appagate nei loro rapporti. Amano lavorare con o per l’azienda, acquistare da essa, investire in essa, e averla come vicino di casa.

Per questi autori, una vera grande azienda è una che con la sua esistenza rende il mondo un posto migliore. È così semplice.

Nel libro, hanno identificato circa 30 aziende, provenienti da più settori, che soddisfano i loro criteri. Hanno incluso CarMax, BMW, Costco, Harley-Davidson, IKEA, JetBlue, Johnson & Johnson, New Balance, Patagonia, Timberland, Trader Joe’s, UPS, Wegmans, e Southwest Airlines. Se il libro fosse stato scritto un po’ più tardi, è probabile che anche Zappos avrebbe fatto parte della loro lista. [2]

“Essere umano, dunque”, è un bene per lo stato patrimoniale nonché per gli stakeholder. Come il fondatore di Southwest Airlines, Herb Kelleher, ha osservato:

Un approccio umanistico al business può pagare dei bei dividendi, anche in un settore un po’ retrivo come il servizio aereo passeggeri.

Il valore del servizio clienti

I modelli di customer experience branded capiscono anche che c’è un “viaggio” per i clienti nel loro rapporto con le aziende preferite.

Si comincia con la consapevolezza, con come il brand viene presentato, cioè con la promessa.

Poi, promettere e creare aspettative devono essere almeno pari a – e, idealmente, superare – i risultati nei touchpoint del mondo reale (come ad esempio attraverso il servizio), inizialmente e poi nel corso tempo, suscitando la minima delusione possibile.

Come notato, c’è un forte riconoscimento del fatto che il servizio clienti è particolarmente importante nell’esperienza di marca.

Il servizio è una delle poche volte in cui le aziende interagiscono direttamente con i propri clienti. Questa interazione aiuta l’azienda a capire le esigenze dei clienti, mentre, allo stesso tempo, plasma la percezione complessiva che i clienti hanno della società e influenza sia la comunicazione a valle che gli acquisti futuri.

Inoltre, “brandizzare” l’esperienza del cliente richiede che l’immagine del marchio (la sua personalità, se si vuole) sia sostenuta e rafforzata nella comunicazione e in ogni punto di contatto.

Le società avanzate la mappano e pianificano accuratamente, riconoscendo che le esperienze sono in realtà una forma di architettura di branding, portata in vita attraverso un’eccellente ingegneria. Le aziende devono concentrarsi sui punti di contatto, che sono i più influenti.

Il ruolo determinante del fattore umano “dipendenti”

Ancora, quanta influenza hanno i dipendenti sulla percezione di valore del cliente e sui comportamenti di fidelizzazione attraverso le loro interazioni giorno per giorno?

Tutti i dipendenti, siano essi “front office” o no, sono il denominatore comune chiave nella realizzazione di una ottimale customer experience del brand.

Rendere per i clienti l’esperienza positiva e attraente in ogni punto in cui l’azienda interagisce con loro richiede una conoscenza approfondita sia delle esigenze del cliente sia di ciò che l’azienda attualmente fa per raggiungere tale obiettivo, in particolare attraverso i suoi impiegati. Ciò significa che le imprese devono comprendere fino in fondo, e fare leva su, l’impatto che i dipendenti hanno sul comportamento dei clienti.

La check list dell’essere umano

  • La vostra azienda è umana?
  • La vostra azienda si concentra sul fornire benefici agli stakeholder?
  • La vostra azienda capisce i clienti e i loro singoli viaggi?
  • Le esperienze dei clienti sono umane e branded?
  • La comunicazione, e gli impegni di marketing, sono omni-canale, micro-segmentati e personalizzati?
  • L’azienda crea un legame emozionale, basato sulla fiducia, e delle relazioni con i clienti e con i dipendenti?

Se la risposta a queste domande è , allora “essere umano” diviene una realtà, il cui valore è stato riconosciuto da tempo, e non un mero concetto che fa da rumore di fondo.

Note

[1] Sul Customer Advocacy Behavior suggerisco un altro articolo, sempre di Lowenstein. Per chi vuole entrare in contatto con i metodi di misurazione dell’advocacy behavior, invece, suggerisco di leggere un post di Lowenstein, che da un lato definisce il concetto, dall’altro riporta esempi molto chiari.

[2] Personalmente invece, avrei voglia di esaminare un po’ meglio i criteri adottati: sollevo qualche perplessità sul fatto che tutti i brand elencati qui rendano davvero “il mondo un posto migliore”. Forse dipende da quale parte del mondo stiamo guardando…

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