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Influenza: per fare branding gli influencer non bastano

Tempo di lettura 5 minuti

I brand sono sempre di più alla ricerca di influencer, tanto che per raggiungere i consumatori è nato un mercato specializzato nell’individuare e mettere in relazione i brand con gli influencer. Tuttavia, quando si tratta di corteggiare i consumatori, in particolare quelli più giovani (i cosiddetti “nativi digitali”), il dubbio è che i brand si stiano concentrando troppo sugli influencer e troppo poco sul processo di influenzamento.

Per molti brand, una campagna che fa perno su un influencer online funziona così:

  • si identifica uno o più influencer adatto/i al mercato target;
  • direttamente o tramite agenzia il brand “assume” l’influencer per promuovere il prodotto, il servizio o l’iniziativa;
  • il brand paga l’influencer per avere accesso alla sua audience.

Secondo quanto riporta Harper’s Bazaar, alcuni influencer, come Danielle Bernstein (fashion blogger e fondatrice di WeWoreWhat), possono guadagnare sino a 10.000 dollari per un solo post.

I brand considerano ragionevole il costo associato alle campagne basate sugli influencer. Gli influencer con centinaia di migliaia (se non milioni) di follower forniscono infatti una rapida via d’accesso ad audience che sarebbe molto ma molto più costoso raggiungere con i canali tradizionali .

Quindi, pagare 15.000 dollari per un post sponsorizzato su Instagram che sarà visto centinaia di migliaia di volte e che potrà ricevere migliaia di “like” sembra un buon affare. Ma è sufficiente?

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Uno dei principali problemi con le campagne basate sugli influencer riguarda il tempo: hanno una durata molto breve. Anche se alcuni brand hanno sviluppato robuste campagne multi-canale attorno agli influencer, il modello del post sponsorizzato è quello molto più comune. Questo può aiutare i brand a raggiungere grandi numeri “social” nel breve termine, ma con risultati sul lungo termine piuttosto dubbi. Nella maggior parte dei casi, il solo modo in cui i brand possono sostenere quelle metriche è continuando ad acquistare post sponsorizzati.

Un altro problema con le campagne incentrate sugli influencer è che (diversamente dagli accordi di endorsment con le celebrità) non c’è alcun coinvolgimento concreto tra l’influencer e il marchio. Ad esempio, ben pochi accordi con qualche influencer somigliano alla relazione tra H&M e David Beckham, o tra Jennifer Lopez e L’Oréal Paris. Questo è insieme una benedizione e uno svantaggio. Da un lato, permette ai brand di lavorare con un influencer (anche il più amato) a un costo che complessivamente rimane di gran lunga inferiore a quello di una cena con una celebrità tradizionale; per contro, è raro che riescano a trovare il medesimo livello di allineamento tra il proprio brand e quello dell’influencer.

La dolorosa verità è che molti brand spendono tempo e denaro sugli influencer ma potrebbero non ricevere affatto tanto potere di influenzamento quanto vorrebbero credere di ottenere.

Per potersi dire “influenti” i brand devono pensare più a lungo termine e considerare che se fanno affidamento sugli influencer per raggiungere i consumatori devono strutturare con loro accordi che stimolino al massimo la loro attivazione e integrazione, pena l’inefficacia delle campagne.

Sembra di moda focalizzarsi sugli influencer per fare il colpaccio nell’immediato, anziché cercare di costruire un brand che sia visto come influente di per se stesso. Chiaro che si tratta di un processo lungo e impegnativo, ma bisogna trovare un compromesso, specie tenendo conto della quantità di impegno richiesto per guidare i consumatori sino al punto di acquistare e poi, si spera, trasformarsi in sostenitori (advocate) del proprio brand.

I brand più influenti in Italia: cosa possiamo imparare da loro.

Da due anni a questa parte il prestigioso istituto di ricerca Ipsos stila una classifica dei brand più influenti nel nostro paese. Tra questi vi sono Nutella, il Parmigiano Reggiano, Ikea, Google… La classifica si può consultare sul sito stesso di Ipsos, ma ciò che conta in questa sede  è la definizione che Ipsos dà dell’influenza:

“Essere influenti significa avere un effetto, un impatto sulla vita delle persone. Le marche più influenti sono parte della nostra vita quotidiana, della nostra routine e, in definitiva, contribuiscono a rendere la vita migliore, più interessante e significativa. […]

Per essere influenti bisogna essere rilevanti e avere un impatto sul modo in cui le persone vivono. L’influenza suscita forti reazioni emotive, ispira l’azione, crea qualcosa con cui le persone si identificano. Le marche più influenti sono importanti nel nostro mondo perché sanno cosa è importante per le persone e riescono dunque a stabilire questa connessione”.

Secondo lo studio di Ipsos sono 5 i fattori che hanno maggior impatto sull’influenza e che differenziano tra loro le marche.

Dimensioni dell’influenza:

1. Trustworthy: l’affidabilità è la pietra angolare di ogni rapporto, è la dimensione principale! Le marche più influenti sono quelle di cui la gente si fida di più. Per essere affidabili esse devono essere coerenti nelle loro azioni e promesse. Quando le persone si fidano di una marca, non solo la usano anche quotidianamente, ma prestano attenzione a quello che dice e sono disponibili a parlare ad altri della marca.

2. Engagement: una marca è una relazione e più le persone sono coinvolte nella relazione più sarà forte l’influenza che la marca esercita sulle loro vite. Quando le persone vogliono impegnarsi con la vostra marca, vuol dire che vogliono essere ispirati da essa e che vogliono anche condividere questa esperienza con altre persone. Nel mondo d’oggi la connessione e l’interazione con la marca si realizza in modi molto diversi, non solo nel punto vendita. Le marche influenti sono amate e discusse e le persone vogliono saperne di più su di loro.

3. Leading Edge: per essere una marca influente, è necessario essere connessa e unica. Le marche più influenti segnano e definiscono la strada, diventano un esempio da seguire. Spesso le “marche di tendenza” hanno un qualcosa di diverso e sono anche non convenzionali. La gente le ama proprio per questo. Grazie al loro successo, spesso determinano nuovi standard per le altre marche.

4. Corporate Citizenship: la gente si aspetta che le marche influenti forniscano qualcosa di più di un semplice prodotto o un servizio. Devono essere parte di qualcosa di più grande. Questo significa giocare la loro parte nella società, nella cura per le persone e il pianeta, e instillare, esprimere e ispirare una serie di norme e valori. La gente vuole rispecchiarsi nelle marche che sceglie.

5. Presence: per avere influenza una marca deve essere anche presente, dev’essere vista, ascoltata, conosciuta. Marche costantemente presenti nel quotidiano e/o che effettuano grandi spese pubblicitarie, sono visibili e sono menzionate nelle conversazioni online e offline.

Cosa serve per soddisfare questi criteri? Servono visione, impegno, leadership, know how. Tutte cose che non si costruiscono da un giorno all’altro e che richiedono tempi relativamente lunghi e la profonda conoscenza dei propri consumatori.

Note

Per la redazione di questo articolo ho preso spunto da un post pubblicato sul blog di Econsultancy, che mi ha stimolato ad andare oltre il ruolo degli influencer e delle possibilità di guadagno se si è una fashion blogger affermata… In realtà la questione dell’influenza e le sue dimensioni, messe in evidenza da Ipsos, è assai complessa e chiama in causa non solo le strategie corporate, ma anche i processi indagati dalla psicologia sociale e ben resi noti al grande pubblico dalle ricerche di Robert Cialdini (si veda ad esempio il suo “Teoria e pratica della persuasione”). A chi abbia voglia di approfondire la conoscenza della Digital Influence, suggerisco la guida pubblicata da Altimeter Group, dal titolo “The Rise of Digital Influence“, che è anche possibile scaricare in formato Pdf.

by Federica Trevisanello

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